Il silenzio è il primo suono. Milano: lockdown 2020
progetto di Max Farina ed Elena Gullace, con la collaborazione di Adelio Fusé
Un anno fa, il 9 marzo 2020, il governo varò il decreto “Io resto a casa”, che chiuderà l’Italia per la prima volta nella sua storia fino al 3 maggio 2020. Le città iniziarono a svuotarsi e a entrare in una sorta di quarta dimensione, priva di vita, rumori e movimento.
A partire da questa data ho intrapreso una traversata all’interno della città di Milano, fotografandola in tutte le ore del giorno e della notte, con l’obiettivo di costruire un archivio della memoria di quei giorni. Lo stesso punto di vista è stato ri-fotografato, frammentato e ricomposto: le singole immagini, scattate in momenti e giorni differenti, dialogano nella forma del trittico per arrivare a un unico tempo condiviso, sospeso e irripetibile.
Ciascun trittico è accompagnato dal progetto grafico di Elena Gullace: una reinterpretazione dell’intera planimetria 1:10:000 della città di Milano. Le strade, le vie, i monumenti, i parchi della città sono stati sostituiti con parole e frasi estratte dai titoli e dagli articoli che i maggiori quotidiani italiani hanno pubblicato dal 9 marzo in avanti (“Corriere della Sera”, “la Repubblica”, “Il Foglio,” “Il Giornale”, “Il Giorno”, “Il Fatto Quotidiano”…).
Attraverso le mappe e le foto abbiamo cercato di fissare in modo indelebile questo evento epocale in cui le nostre città sono state trasfigurate in modo imprevedibile, sospese tra paura e sbigottimento.
Max Farina




e c’è questa gran luce che sfolgora
si riversa e sfrigola persino
percuotendo il vetro e trapassandolo
rispecchiandosi e irradiandosi
o scintillando infiltrata speciale
in spiragli e fessure:
il Sole è una bolla
da quale cannuccia soffiata?
e c’è il canto persistente degli uccelli
inaugurato prima dei colori
sul loro confine
una festa sottofondo per memorie
di danze in trasparenza
e c’è un gatto che artiglia
con la voce esplosa
prigioniero e messaggero di un ciclo:
i bisogni non soddisfatti si mutano
in utopie o distopie
e c’è il rumore vicino ma lontano
l’automatico singhiozzo del camion
con la bocca che sul retro va su e giù
inghiottendo un lascito variato e insaccato
rifiuti prelibati e saturi
e c’è una sirena che squarcia l’aria
e la riassesta
un cavo di acciaio che si srotola teso
una teleologica traiettoria
parallela alla scia della mistress
con la falce mentre l’ambulanza
fila alla base: una stazione spaziale
ridiscesa quaggù sulla Terra
medici e infermieri astronauti non alieni
e c’è il silenzio che interrotto
si autorigenera con rimbombi nell’ovatta:
una cassa armonica espansa a sfera
e c’è il tempo dei tuoi giorni rappresi fedele alla regola che nel Tempo lo dissolve
Quelle di Max Farina sono anche fotografie scattate con l’orecchio. La città colpita dal lockdown, spogliata delle attività abituali e della nostra massiccia presenza – il fotografo che la esplora solitario agisce in rappresentanza di noi tutti – scopre giocoforza il silenzio. In assenza di suoni, o in presenza di suoni che si palesano come delle eccezioni, il silenzio cambia: non è più uno sfondo perlopiù soffocato ma un elemento dominante e pervasivo. E possiamo capire, allora, come il silenzio, nello spazio urbano svuotato, sia davvero un suono, anzi, il primo suono. In questo senso le fotografie di Max non sono solamente da vedere ma da ascoltare.
La poesia, che è stata composta nell’aprile 2020, descrive soprattutto questo silenzio-involucro attraversato da suoni isolati (su tutti emerge quello lancinante delle sirene delle ambulanze, presto diventato, con il suo carico di angoscia, il suono-simbolo del lockdown). Il silenzio della metropoli desertificata è una enorme e avvolgente cassa armonica che accresce l’intensità di ogni fenomeno sonoro – compreso quello più piccolo – e lo modifica, consegnandolo al nostro udito come mai prima era successo. Ogni strofa corrisponde a una scena – una fotografia, se si vuole, scattata con l’occhio o con l’orecchio o tutta mentale –, suggerita da un evento esterno che s’intrufola nella stanza attraverso una finestra socchiusa. Le finestre, del resto, in quel periodo hanno rappresentato il nostro principale e reale mezzo di comunicazione con il mondo fuori.
Si può avvertire un incrociarsi fra il racconto delle foto – racconto che si svolge tutto all’esterno – e quello della poesia, che recepisce invece dall’interno una città che non è più la stessa ma racchiusa in uno stato di anomala sospensione.
Adelio Fusé



